È un giro di valzer questo tempo, un roteare su un palco piccolo piccolo, in un teatro che hai avuto l’onore di allestire tu stesso.
Senza spettatori, noi danziamo, con la speranza che qualcuno ci dica che la messa in scena è finita. La storia dell’umanità è costellata di costrizioni, percorsi stabiliti da necessità o da gerarchie familiari e, in effetti, da poco meno di 100 anni, a noi occidentali è stato concesso di scegliere liberamente che mestiere fare, quali viaggi intraprendere, quando è il momento di uscire di casa e quando, invece, è il momento di stare da soli.
Oggi, dopo la negazione di tali libertà per ragioni sanitarie; oggi, in cui frontiere e confini vengono chiusi, congelati i nostri lavori e il mondo è diventato la sola vista da una finestra, fisica o digitale; oggi che una guerra, apparentemente improvvisa, improbabile, è così vicina all’uscio di casa, tutto appare distante anni luce, anche mete che, fino a ieri, ci sembrava di poter raggiungere in poche ore d’aereo…
Ieri e Oggi io ho deciso, perciò, di ripercorrere i miei viaggi, selezionando alcuni scatti degli ultimi anni. Immagine dopo immagine, ho iniziato a riflettere su quale fosse il loro comune denominatore e l’ho trovato, senza stupirmi, nel concetto di assenza.
Ho iniziato a fotografare a 20 anni. Le mie linee guida erano le spiagge di Luigi Ghirri e la Parigi deserta di Paul Strand, ed io, cresciuto in una città caotica come Napoli, in una famiglia numerosa, sono sempre stato affascinato dal silenzio e dall’assenza: era questo che cercavo quando immortalavo un luogo.
In verità, non ho mai viaggiato per fotografare. Non ho mai organizzato viaggi in funzione di un progetto fotografico e mi sono sempre spostato in periodi dell’anno comuni a molti, quindi, trovare l’assenza era una sfida. Mi sono dimenato tra orde di turisti di ogni specie per riportare nelle mie foto un’immagine che offrisse la sensazione di sentire il mio respiro dietro la macchina fotografica donasse pace, aprisse ad immaginazioni sterminate, distruggendo la mera localizzazione geografica del posto, porgendo la mia visione solo ed esclusivamente come un ricordo.
Nel 2020 quando tutti abbiamo avuto modo di vedere le immagini delle metropoli deserte, ho incominciato a riflettere sulla mia enorme ‘menzogna’, sulla fatica compiuta per architettare quel piano, e su come sia veloce la mutazione della percezione.
Improvvisamente il mondo è diventato un set, le case dei props e il sole un enorme bank. E, interrogandomi ancora ho compreso che da giovanissimo avevo scelto la fotografia perché ne avevo percepito immediatamente il suo potere diabolico.
È la menzogna più grande, è l’immagine più fedele che abbiamo della realtà ma, allo stesso tempo, può essere la più falsa e indurre lo spettatore a credere che sia reale.
Io so che quei luoghi, i miei luoghi, erano affollati ma la mia era una menzogna a fin di bene, mi serviva per raccontare una storia che sarebbe finita in un libro di fiabe.
Fabio Ricciardiello
Nel mese di Marzo, come molti, avrei dovuto incontrare una serie di persone per iniziare nuovi progetti, concretizzarne altri e stringere nuove conoscenze.
Nell’impossibilità di un contatto ravvicinato a causa delle restrizioni per emergenza sanitaria, ho pensato di inviare una foto scelta da me tra quelle facenti parte del progetto “dove tu non sei”, come fosse una cartolina che è un invito al viaggio e di chiedere, al destinatario, un’impressione su ciò che ha ricevuto. I messaggi, le impressioni ricevute sono diventate una sorta di testo che accompagna il progetto scaricabile in pdf dal link sottostante.
Ringrazio di cuore Irene Biolchini, Marina Dacci, Claudio Composti, Luigi Codemo e Giovanni Gardini che con le loro “impressioni” hanno attraversato quel ponte, tirato su in pochissimo tempo, per ricambiare il mio abbraccio.